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di Filippo Milazzo / In quel periodo ero in attesa di una condanna definitiva, ma non sapevo quando sarebbe arrivata. Una sera, rientrato dal lavoro, giocavo con i miei figli piccoli mentre aspettavamo che mia moglie finisse di preparare la cena. Ad un certo punto mi ha chiamato chiedendomi di salire in casa perché la cena era pronta. Sono salito e mi sono ritrovato una pattuglia della polizia ad attendermi per andare con loro a notificare un atto. Prima di andare ho salutato i miei figli dicendo loro che sarei tornato presto. Purtroppo, non è stato così perché la condanna definitiva era di un anno e sei mesi. Dopo varie procedure mi hanno portato in carcere e qui è iniziato il mio calvario.

In un primo momento facevo colloqui con mia moglie e i miei tre bambini, che presto sarebbero diventati quattro. Mia moglie veniva a trovarmi in carcere quando riusciva, dal momento che, per la gravidanza, non poteva essere sempre presente.
La situazione è cambiata quando un giorno mi hanno detto di prepararmi per essere trasferito in un altro carcere. Chi aveva una condanna definitiva non poteva stare nel carcere della mia regione, a causa del sovraffollamento in quel momento.
Sono stato subito trasferito a Melfi e dopo un mese sono stato nuovamente trasferito a Orvieto, un carcere per i definitivi. Nel frattempo, mi erano arrivate tutte le condanne e la mia pena era aumentata.

In quel periodo non facevo più colloqui con i miei familiari e, di conseguenza, sapevo poco di cosa succedesse in casa. Riuscivo a vedere sia mia moglie sia i bambini quando andavo a Genova per le udienze. Nel frattempo, era nata la mia quarta figlia e mia moglie aveva comunicato all’assistente sociale che non riusciva più a gestire i bambini da sola.
Con la decisione del giudice dei minori, i miei tre figli sono stati trasferiti: mio figlio in un istituto per bambini e le due figlie in un istituto per bambine. La quarta figlia per un breve periodo è stata con la madre per permetterle lo svezzamento, fino a quando ha raggiunto l’anno d’età. Successivamente è stata affidata ad una famiglia fino ai tre anni per poi essere affidata ad una seconda famiglia ad Asti.

Da detenuto ero riuscito a mantenere i contatti con i primi tre figli grazie alle telefonate, nonostante il poco tempo che avevamo a disposizione, ossia 6 minuti ogni 15 giorni. Riuscivo inoltre a trascorrere delle giornate con i miei figli grazie ai permessi e all’autorizzazione dell’assistente sociale. Invece con l’ultima figlia non avevo nessun contatto.
Mi ritrovavo in questa situazione senza essere stato interpellato dal giudice dei minori: essendo detenuto non avevo più voce in capitolo sui miei figli. Dopo qualche anno, quando ero quasi al termine della mia pena, ho tentato di far tornare i miei figli a casa da me, ma il giudice si è espresso in modo contrario. Questo perché nel frattempo mi ero separato da mia moglie e, secondo il giudice, finché non mi fossi creato una nuova famiglia, i miei figli non potevano stare con me.

Intanto sono diventati grandi e mio figlio è venuto subito con me al compimento dei diciotto anni. Le prime due figlie femmine invece, ancora minorenni, non potevano tornare a casa mia, ma successivamente, quando la seconda figlia ha richiesto di tornare a casa, il giudice l’ha permesso. L’unica con cui ho avuto pochissimi contatti è stata, dunque, la quarta figlia, dal momento che raramente potevo vederla, essendo in affido familiare. Ha sempre riconosciuto come genitori la famiglia che si è presa cura di lei e adesso vive in Romania, è sposata ed è madre di due bambini.
Di tutta questa vicenda sento che, anche se sono padre, come genitore sono stato un fallimento. Ho cercato di fare il possibile per far vivere bene i miei figli, ma credo non sia servito a niente. Ancora oggi, molte volte mi dicono che, quando avevano bisogno di me, non ci sono stato.